È notizia di qualche giorno fa, riportata da “Il Giornale”, che la giustizia tedesca ha inventato una nuova condanna per recuperare i minori colpevoli di violenze, abusi sessuali o atti vandalici, cioè i cosidetti “bulli”.
La nuova condanna consiste nella lettura di un’opera letteraria e i risultati, pare, siano stati molto positivi. L’idea della lettura come pena rieducativa è venuta a un giudice del tribunale minorile di Fulda, Christoph Mangelsdorf. Le pene usate tradizionalmente consistevano nell’assegnazione di lavori di utilità sociali come fare pulizie negli ospedali. Ma, si è constatato che, al termine della “pena” i ragazzi riprendevano le vecchie abitudini antisociali. Così il giudice ha pensato di sperimentare la via della lettura, imponendo ai ragazzi condannati di leggere, entro una certa data, un romanzo selezionato, richiedendo loro di discuterne quotidianamente con un operatore e di redigere una relazione finale.
Nell’articolo viene riportato l’esempio del primo ragazzo condannato a cui è stato richiesto di leggere “Das Böse” (Il male) di Jan Guillou, ambientato in un collegio dove i ragazzi più grandi commettono ogni genere di soprusi sui più piccoli, con conseguenze deleterie che marchieranno la vita adulta sia dei carnefici che delle loro vittime. Pare che il bullo in questione sia rimasto particolarmente colpito dalla lettura del romanzo, abbia redatto alla fine una relazione lunga e approfondita e, cosa più importante, abbia cambiato atteggiamento nei confronti degli altri. La pena alternativa è stata sperimentata su una quindicina di ragazzi, finora.
È evidente che i romanzi scelti per la condanna non sono casuali. In questo caso, ad esempio, è stato selezionato un romanzo in cui il ragazzo ha potuto facilmente identificarsi con la storia e i protagonisti, ma, soprattutto ha potuto riflettere sugli stati emotivi sia della “vittima” che del “carnefice”, e di conseguenza sui propri stati emotivi e su quelli degli altri. La lettura (e la discussione sulla lettura) hanno probabilmente permesso al ragazzo di prendere coscienza del proprio stato interiore e di conoscersi meglio, ma hanno anche attivato in lui la capacità empatica, cioè la capacità di assumere la prospettiva emotiva dell’altro e di condividere le sue stesse emozioni.
In effetti, da tempo, nei progetti antibullismo si è rivelato di fondamentale importanza proporre interventi che promuovano lo sviluppo della consapevolezza e del riconoscimento delle emozioni.
Ma ciò che è stato potente e efficace in questo intervento punitivo-educativo credo abbia a che fare anche con un altro aspetto che è strettamente legato all’immagine di sé e all’autostima. Avere autostima significa apprezzare e amare se stessi e, di conseguenza, stare bene con gli altri. L’autostima è l’opinione che si ha di se stessi, ed è la consapevolezza di essere in grado di fare bene determinate cose e di avere un ruolo nel mondo al quale si appartiene. Il bullo ha bisogno di percepirsi superiore all’altro per riconoscere il proprio valore. La sua posizione esistenziale è del tipo “Io sono OK, tu non sei OK”. Ha una concezione sbilanciata del rapporto con l’altro dove percepisce il suo essere “Ok” solo stabilendo una posizione di “superiorità” attraverso gli atteggiamenti aggressivi. Per apprezzarsi ha l’esigenza di confermare il proprio valore attraverso la dominanza sull’altro.
I lavori socialmente utili hanno un obiettivo educativo di tipo “riparatorio” e sono pene basate sul “fare”: “hai fatto del male a qualcuno, ora fai qualcosa di utile alla società, ad es., le pulizie nell’ospedale”. Per un soggetto “antisociale” questa punizione non promuove un cambiamento ma rischia di confermare e etichettare lo status negativo: il bullo si sentirà in una posizione di inferiorità, confermerà l’idea di una relazione non paritaria e non comprenderà la posizione dell’altro. E’, inoltre, una condanna basata sul “fare”, cioè richiede un “agito” a persone che interagiscono spesso esclusivamente su quel canale.
Credo che la condanna alla lettura possa aver dato risultati confortanti perché ha dato la possibilità a quei ragazzi di “vedersi” in un modo diverso. I bulli che mediano la loro relazione con gli altri attraverso il loro “fare” aggressivo hanno avuto l’occasione di utilizzare altri canali di interazione con il mondo. È stata data fiducia nella loro capacità di “pensare” e di “sentire”, e ci si è posti in una relazione bilanciata.
Ci si è mostrati interessati a quello che hanno da dire oltre che a quello che fanno.